di Andrea Granata
I social rappresentano tra le tante cose una nuova forma di memoria ricordandoci cosa accadeva quel giorno di tot anni fa. Stamattina dai miei ricordi social è riemerso in video del 2018 di un intervento di un parlamentare del centro destra che senza giri di parola apostrofava come ignorante l’allora ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, a cui aggiungerei l’aggettivo indimenticabile.
Erano i giorni in cui in Parlamento si discuteva della riforma grillina della prescrizione, il Ministro pare avesse affermato che quella riforma rappresentava la salvaguardia del diritto soggettivo dello Stato di punire altrimenti limitato dalla prescrizione. L’effetto della solenne fesseria del ministro fu quella di scatenare tra i banchi dell’opposizione veementi reazioni per ribadire a brutto muso il principio di civiltà giuridica secondo cui il processo penale è costruito per tutelare il cittadino e non per garantire il diritto soggettivo dello Stato di punire.
Un cambio di visione che probabilmente ha rappresentato una delle più rilevanti conquiste che ci ha regalato l’illuminismo e che segna la nascita del diritto penale moderno, la scienza del limite della potestà punitiva dello Stato.
Bonafede ed i suoi sodali non ci sono più, ma oggi come allora a farla da padrone è il folclore con cui ministri e parlamentari esercitano il proprio ruolo, in una perenne ricerca della gaffe, del vespaio della visibilità, delle reazioni sdegnate di chi recita il ruolo di oppositore, spesso di maniera da risultare controproducenti, insomma una dialettica riassumibile con un video su Tik Tok.
Stiamo assistendo ora come allora ad un’accelerazione dello scempio di principi fondamentali della civiltà giuridica.
Siamo tutti vittime di un autentico raggiro in cui la politica ci racconta che sta lavorando per la nostra sicurezza e che lo sta facendo punendo fatti che prima non lo erano o lo erano talmente blandamente da invogliare i delinquenti a commettere reati.
La realtà ha un’altra chiave di lettura perché stiamo presenziando senza battere ciglio alla creazione di reati, che invece di descrivere e punire fatti descrivono e puniscono le sembianze, le caratteristiche o le abitudini di qualcuno che si addita come nemico della società.
Sarebbe sbagliato liquidare la questione con un che ti volevi aspettare da questi, perché ben prima di “sti fascisti” il magistrato che sermoneggiava un po’ ovunque, con la sua battuta sugli innocenti che non esistevano trattandosi di colpevoli che l’avevano fatta franca raccoglieva applausi e consensi bipartisan, forse anche dall’Anpi.
Nessuno allora trovava politically correct contraddire tanto autorevole magistrato, figuriamoci poi se era il caso di ricordare che l’idea che esistano “intrusi” variamente qualificati, da traditori ad innocenti apparenti, non è una novità, ma qualcosa che prima con leggi contro gli avversari politici e poi con le leggi razziali abbiamo conosciuto in passato altrimenti quasi sempre evocato a vanvera da molti dei fans di quel magistrato.
L’attuale legislazione penale ci dovrebbe far comprendere ancor meglio che siamo tornati allo scontro tra la politica ed i «principi assoluti del giure penale».
Oggi la difesa delle conquiste fatte dai nostri antenati rischia di passare attraverso la cruna dell’ago del politicamente corretto ed i suoi drammatici interrogativi, sul come sarebbe più opportuno manifestare il dissenso verso forme di repressione che sanno di totalitarismo senza per questo dare l’impressione di abbassare la guardia nella lotta contro la corruzione dei colletti bianchi, dei mafiosi last but not least degli evasori fiscali. Insomma roba grossa, paragonabile ai problemi di guardaroba che pochi eletti conoscono nei momenti che precedono le rivoluzioni.
Questo, invece per capirci è uno di quei momenti in cui sarebbe necessario decidere, possibilmente alla svelta, se continuare a farci o essere liberali, credere nella democrazia o nella pizzica, traendo le inevitabili conseguenze del caso.