
di Andrea Granata
Ormai molti anni fa mi capitò di leggere un romanzo, Il di cinese del dolore, scritto da Peter Handke un autore austriaco, successivamente insignito del premio Nobel.
Il protagonista del romanzo, Andreas Loser, era un insegnate di lettere classiche nonchè archeologo appassionato ricercatore di “soglie”, luoghi a cui dava una valenza fisica e metafisica.
Per il protagonista del romanzo le soglie non erano solo punti di passaggio, ma assurgevano a luoghi di sosta dove “tutto è in sospeso”.
Al di fuori del romanzo, nella realtà che viviamo oggi ci sono soglie, limiti, confini di tutt’altra natura che non conoscono davvero pace e non ci riferiamo a quelli geografici.
Se riflettiamo ogni volta che il legislatore ci elargisce una nuova figura di reato questi non fa altro che ridisegnare dei limiti, dei confini, quelli che delimitano il limite all’intervento punitivo dello Stato.
Ecco proviamo ad immaginare il diritto penale come una carta geografica e magari torniamo ai bei tempi quando bambini col grembiulino ed il fiocco restavamo incantati davanti a quella carta e rimiravamo laghi fiumi e confini.
I confini tracciati da un reato esattamente come quelli fisici degli stati dovrebbero essere una cosa seria, basterebbe pensare che la categoria del limite nel diritto penale è stato il rovello che ha tenuto occupati i grandi giuristi del passato.
Grandi giuristi come il Carrara pensavano che quel limite i legislatori, ancora prima dei magistrati, dovessero trovarlo nella ragione, nei postulati del diritto richiamando principi assoluti, universali.
Per queste ragioni il diritto per noi boomer dovrebbe essere “il supremo garante della libertà umana”.
Poi però se ci caliamo nel presente e leggiamo quella che è la cronaca giudiziaria di questi ultimi anni ci rendiamo conto che le soglie, quelle di punibilità, sono divenute tutto meno che luoghi di sosta dove tutto è in sospeso ed ancor meno luoghi fisici o metafisici da trattare con cura o addirittura sacralità.
Davanti ai nostri occhi si presenta una vera e propria furia iconoclasta verso il diritto ed i suoi principi che si realizza attraverso la produzione di reati a richiesta, autentiche creazioni con le quali a domande legittime di sicurezza, spesso anche a percezioni indotte, si danno risposte elusive, sciatte, a costo zero per il bilancio dello Stato, optando per soluzioni che altro non sono che le stesse domande a cui si dà l’intonazione di una risposta, tutto condito con un inasprimento delle pene, un nuovo reato che davvero non si negano a nessuno.
Da qui nasce questa produzione legislativa, il common law all’italiana, con la quale si descrive e punisce un fatto rigorosamente di cronaca, a volte con annessa descrizione del normo tipo di reo.
Purtroppo come sempre nulla di nuovo sotto il sole, la Storia si ripete con il portato di farsa e poi tragedia, perché duecento anni fa la principale preoccupazione di chi era appena uscito dalla tirannia era che il diritto si sbarazzasse per sempre del rischio di divenire strumento di velleità politiche.
Si in assenza di talk show i nostri antenati al diritto chiedevano di essere certo, addirittura di essere “un criterio perenne per distinguere i codici penali della tirannide dai codici penali della giustizia”. Che tenerezza, quanta ingenuità nei nostri antenati, donne e uomini con tale e tanta fiducia nel diritto da affidare a delle regole certe la difesa delle loro libertà.