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      Pensieri e Fake

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      di Andrea Granata

      Con una punta di ottimismo ormai, perché il fenomeno è ben più diffuso, mi capita di apostrofare come chiacchiere da bar argomentazioni su temi che dovrebbero indurre al silenzio, allo sconcerto, ad un senso di inadeguatezza e perché no? A pensare.
      Sempre più spesso mi capita di trovarmi privo di opinioni, alla ricerca di ragioni per farmene una, in quella fase feconda in cui sento il bisogno di cercare ciò che ignoro, di rileggere libri o riascoltare dibattiti che avevo sentito anni prima e che oggi potrebbero aiutarmi a comprendere il momento storico che sto vivendo.


      Annoto, che mentre sono occupato da pensieri spesso confusi in cerca di lumi, intorno a me c’è chi ha compreso il momento ed ha un reel (un breve video), una puntata di Report o nei casi più estremi la lettura di un libro di Travaglio “che riassume come meglio non si potrebbe” il proprio “pensiero”.
      In questa orgia di citazioni, rimandi e richiami, mi capita di ricevere come spunti di riflessione segnalazioni di conferenze, noiosissime, dove qualche Professore universitario 2.0 viene invitato ad offrire il proprio sapere. Scienza che viene elargita ad una platea che non ha alcun interesse a mettere in moto le proprie sinapsi, a comprendere, ad allargare i propri orizzonti, ma che al contrario è lì non per capire cosa gli si sta dicendo, ma perché è animata da pulsione alla complicazione.
      Sì, la complicazione che diventa l’abito, meglio dire, la foglia di fico di pregiudizi, superstizioni, rancori, un incomprimibile bisogno di non palesarsi, una vera excusatio non petita, con cui si ammantano le proprie legittime convinzioni.
      Senza troppi giri di parole, il punto è che ormai da decenni si attribuisce il rango di pensiero a delle suggestioni, dei veri e propri fake dove invece del Rolex si tarocca il pensiero come categoria, offrendo, a chi legittimamente non ne ha, un’idea. Idee diverse da quelle che un tempo si diceva avrebbero potuto cambiare il mondo; in questo caso ci si accontenta di qualcosa che abbia la funzione di un vero e proprio accessorio, del tutto simile a quello che poteva rappresentare il piumino di una certa marca per i paninari degli anni ottanta.
      Per comprendere meglio ciò che sto cercando di dire, pensiamo agli avvocati, magari al nostro, quello che ci sta difendendo in una lite con un vicino di casa.
      Ecco, gli avvocati cercano nei precedenti della giurisprudenza per trovare conferme delle proprie tesi difensive. Tra gli avvocati però, ci sono quelli che leggono le sentenze che citano ed altri che si accontentano delle “massime” ovvero di una sintesi fatta da altri di quella sentenza, una sorta di tag ante web.
      I primi si affidano alla ragione, i secondi ad un’apparenza di ragione, i primi cercano di comprendere il ragionamento che ha condotto il giudice ad assumere quella decisione, i secondi a riportarne i risultati evidenziando che sono gli stessi che si vorrebbero per il proprio cliente.
      Immagino che ancora oggi, nella vita reale, per noi stessi, dovendo scegliere un avvocato che difenda le nostre ragioni, si preferisca quelli che leggono le sentenze rispetto a quelli che ci dicono che abbiamo ragione.
      Ecco, diciamocelo pure: forse la nostra generazione si è dimostrata inadeguata ai cambiamenti epocali che ci è toccato vivere, forse abbiamo delle enormi responsabilità per essere restati inerti mentre un po’ per volta le cose stavano accadendo, ma almeno iniziamo ad evocare il nostro personalissimo “Piave”: il fake pensiero non passerà.

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