di Emidio Maria Di Loreto
La letteratura cinematografica ripropone ciclicamente nelle scene un richiamo alla tavola. Vi sono esempi, i più disparati, per imbastire o legare narrazioni che poi hanno prodotto documenti diventati storia nelle arti. Evitando citazioni, che avrebbero nutrimento dall’ovvietà, si può tranquillamente riflettere che si spazia dalle opulenze alimentari più ricche, alle miserie di alcune tavole ben rappresentate dai locali in cui sono accolte, alle raffinatezze di cibi più ricercati accompagnati da bevande intriganti che possono affascinare ed indurre a riflessioni che hanno molti aspetti di ricercata cultura. Ognuno degli esempi come specchi della società che consuma intorno alla tavola tanti significati. (La grande abbuffata; Un’ottima annata; La cuoca del presidente; Un americano a Roma; Rattatouille; Il sapore del successo; ne sono autorevoli esempi). Più semplicemente lo stare a tavola insieme può ipotizzare che: «ci si alimenta solo di cibo. Ci si alimenta gli uni degli altri» (aforismi di Fabrizio Caramagna) oppure dallo stesso autore «La tavola è luogo di riconoscimento e ospitalità, ed esperienza di scambio». È sicuramente questo ma è anche una spinta interiore naturale, che compare ad esempio dopo che si è espressa una vita nelle proprie esperienze e che richiama a riunirsi per consumare la comune esigenza del ricordo tra coloro che lo hanno interpretato. Una occasione insomma per ricoagulare, riproporre, rispolverare le esperienze, riviverle con rinnovato senso critico, rimettere insieme i paletti vicendevoli, ed a volte qualche coccio, entro i quali si è mosso un vissuto che poi significa anche ripensare a quel che si è intorno a quella tavola di leccornie e pietanze della tradizione. Vuol dire rispolverare antichi affetti ed amori, le imprese scolastiche tra soddisfazioni e difficoltà, la vita del paese che ha guidato i comportamenti che poi hanno consentito di raggiungere, in tanti casi, i successi che si volevano. Una palestra di vita, il paese, che si è mostrata adeguata all’incontro con una varietà di impegni, tra i più vari affrontati successivamente, senza mai dimenticare come guida l’operosità, i sacrifici profusi da genitori e discendenze, e soprattutto quell’inconfondibile senso di solidarietà che comunque portava ad accettare il diverso senza troppi fronzoli. Poteva anche accadere, nei comportamenti in gioventù, di scatenare l’ilarità dei presenti verso il soggetto preso di mira, ma sempre con un senso di rispetto che significava accettazione e non emarginazione. È accaduto non solo per le individualità ovvie, ma anche soprattutto per gli esempi comportamentali che nel corso della vita ognuno ha significato per gli altri. È grazie a quanta importanza si è dato a questi che si è giunti ad essere quel che si è, anche per semplici o profonde riflessioni esistenziali intorno al tavolo delle leccornie, come abbiamo ricordato nell’aforisma di Caramagna: La tavola è [….] esperienza di scambio. È allora che ci si concede al ricordo, per catturare quella netta sensazione di fermare il tempo in fotogrammi che hanno ben impresso la pellicola dei sentimenti e delle cose importanti vissute insieme. Quando si dice insieme non significa esclusivamente a contatto di gomito, significa che la distanza non interferisce, quindi, anche da soli, con la certezza però del contributo indotto e della condivisione amicale ed informata degli altri.
Ecco la tavola può essere anche questo, minimo comun denominatore per gli eventi che evocano lo stare insieme come una tappa ambita. È tavola che accoglie, riunisce e ridiventa subito auspicabile pure per una nuova occasione non appena l’esperienza si è conclusa.
Ci si saluta come se tutti fossero “intabarrati” nell’indumento che è anche simbolo dei luoghi montani in cui si è organizzato l’evento, dove però l’antica lunga cappa di lana pesante, infeltrita al punto da diventare impermeabile, protegge sentimenti inscalfibili da intemperie e dall’inesorabile tempo che trascorre su amicizie solide.
Si sceglie di rispolverare l’antico rito della festa per il maiale come scusa alimentare. Una scelta che è anche una celebrazione del cibo che in quelle zone ha costituito la principale fonte calorica per la crescita delle popolazioni. Quale rito beneaugurante in inverno si completava l’uccisione del maiale, e la preparazione dei salumi che avrebbero supportato l’alimentazione per tutto il lungo inverno, con una rituale tavolata alimentata da pietanze connesse alla circostanza. Ecco quindi comparire peperoni secchi “’ngrillati” al momento o arrostiti in precedenza, supporto di bruschette per alici sott’olio del Cantabrico arricchite da formaggi freschi, qualche morigerato assaggio di fegatazzo [1] proveniente da una analoga esperienza anticipata, e qualche frittata di rinforzo. Il piatto centrale da celebrare però è lo spezzatino di carne di maiale appena macellato ed i fagioli conditi con lo strutto prodotti dalla lunga cottura della carne nel tegame di rame, lu cutteurƏ. Preparazione arricchita da generose manciate di spicchi d’aglio rosso, foglie d’alloro, rametti di rosmarino senza però il ricorso in aiuto alla mezza “limoncella” che a volte diventa “meloncella”, per non ledere le raccomandazioni dell’originalità della ricetta. La mela infatti costituisce una divagazione ed è apprezzata solo da una piccola rappresentanza gourmand per il contributo acidulo-dolciastro che conferirebbe alla pietanza (versione contadina del più noto maiale alle prugne). La mela considerata fa riferimento al suo colore giallo spento ma inizialmente brillante, al gusto acidulo, alla buccia grinzosa perché si presta alla conservazione in file ben ordinate sulla sommità di credenze di un tempo o tavolati predisposti alla bisogna.
Cottura al fuoco vivo, faticosa perché espone troppo alla vicinanza del calore, che può durare anche tre ore, alla quale si dedicano persone a turno che ripuliscono la cottura, scartandole, anche delle prime produzioni di grasso; almeno fino a quando lo strutto non risulterà limpido e la carne croccante. Il tutto ovviamente accompagnato da un Montepulciano giovane che a volte procura anche qualche facile insidia o semplicemente un abbassamento delle difese confidenziali. Arriva inesorabilmente a chi ha ceduto ad una beva che è calamitante, che ben accompagna il cibo, e che quindi induce all’esagerazione. Pietanze e bevande mettono subito in chiaro lo spirito goliardico che pare non essersi mai perso, per cui i ricordi ed i dettagli delle narrazioni, che potevano sfuggire all’epoca, vengono rispolverati e resi ancora più gradevoli e ben saldi tra le migliori esperienze dei partecipanti. Alla narrazione non aggiunge niente quel che i partecipanti rappresentano in società, se mai resta utile alla comprensione l’esempio, quello che hanno dato nel loro percorso amicale e di vita, per chi verrà dopo, e per il contributo vicendevole che arricchisce i racconti intorno alla tavola delle leccornie. Vi si ritrova un gruppo che ha condiviso la crescita in infanzia e gioventù. A mezzo videochiamata si raggiunge anche chi non ha potuto partecipare. Un evento apprezzato e realizzato grazie all’organizzatore che se non ci fosse non si concretizzerebbe questa o altre iniziative simili. Ha guadagnato nel tempo la figura di aggregante, il motore di ogni affetto e pure sempre pronto a distendere quel filo di Arianna al quale tutti sono saldamente legati per superare al meglio i percorsi obbligati nel labirinto della Vita. Da ognuno di loro contributi e le narrazioni che hanno attratto attenzione, senza che mai questa venisse meno, tra ricordi inevitabili e riflessioni di saggezza comportamentale. Non mancano confidenze sui periodi professionali vissuti, sul come siano avvenuti i miglioramenti, e la condivisone aiuta a liberarsi di ricordi di insuccessi o meglio dei mancati riconoscimenti che, impostori più scaltri o eticamente scorretti, utilizzarono per avvantaggiarsi, come usano i mediocri, bravissimi nell’urlare per mascherare le loro negligenze, o come in natura fa il cuculo. L’uccello che lascia covare le proprie uova nei nidi di altri volatili, come i lavoratori irrispettosi, dichiaratamente in carriera, che approfittano del lavoro altrui per ottenere meriti altrimenti lontani per loro. Altra similitudine pure in tema cinematografico (The Great Alaskan Race): ci fu chi si prese riflettori, cartoni, lungometraggi, telecamere e la storia, come il cane Balto. Di contro risultò citato solo nei dettagli il siberian husky che davvero rese possibili i percorsi più pericolosi e lunghi nella corsa di oltre 1.000 km per il siero antidifterite, il cane Togo. Impresa cui si avvicendarono nel 1925, tra ghiacci e tempeste di neve in Alaska, 150 cani da slitta e 20 mushers .
Infine, prova di quanto l’accoglienza verso gli altri possa essere un bene prezioso, tre presenze nuove intorno al tavolo delle leccornie e delle tradizioni, impreviste, provenienti addirittura dalle sterminate factory della Nuova Zelanda e dall’Australia. La domanda inequivocabile, magari pensata ma non posta, è di come questi ospiti inattesi siano finiti nella cascina della convivialità in Valle Peligna, quando le longitudini e le latitudini sembrerebbero improponibili anche adesso. Fatto sta che ci sono, gradiscono, partecipano e condividono completando la varietà di esperienze che ha accolto la tavola di cui narriamo. Arricchiscono i contributi di alcuni partecipanti che sono tornati a respirare le origini dopo esperienze professionali in terre lontane, dove con il successo ottenuto però, non hanno annullato l’esigenza del piacere nel ritorno. Sono essi anche prova inconfutabile di come l’accoglienza arricchisca, di come la migrazione possa essere risorsa per interscambi che appaiono ormai l’unica condizione per migliorare l’intero sistema e l’integrazione un completamento sulle necessità.
Si evita nelle chiacchiere sistematicamente di incorrere nelle divergenze di vedute sugli argomenti di attualità, ed allora nasce solo qualche acceso excursus sulle valorizzazioni mancate dai prodotti agricoli della zona, malgrado l’inequivocabile qualità espressa in enologia. Ci si infervora sulla caparbia difesa di una peraltro indifendibile autoctonia di prodotti quando ormai si è stabilito l’origine genetica inconfutabile del vitigno in esame. È magnificato nei ricordi di gioventù, lu Camplais [2], il Camplese in dialetto, proveniente dalla cittadina del teramano. Un atteggiamento emblematico, una cronica distintiva autoreferenzialità che rifiuta di mettere in chiaro le caratteristiche di un prodotto pregevole, ricorrendo ad un piglio ben esibito, che ne afferma un’unicità che non trova però più attinenza. Ormai, mercato e genetica, hanno già dato risposte certe, segnate anche da significativi successi. Sfugge inesorabilmente per queste impostazioni il beneficio economico che potrebbe arrivare ai produttori della zona dall’onda del successo della Passerina se al Camplais fosse dato il suo nome del disciplinare.
Diversa la considerazione e l’assaggio di un Fermentato, Lu Fermentatə, [3] un vino ottenuto da Montepulciano d’Abruzzo secondo una antica usanza della quale vi sono scarsissimi riscontri a livello nazionale se non l’uso che ne facevano altrove dopo averlo acquistato da piccoli produttori locali.
In conclusione di serata, con tavola ben spazzolata dalle pietanze, non manca l’inevitabile brindisi per l’impegno sanitario al quale qualcuno del gruppo dovrà sottoporsi. Lo si affronterà con la decisione di chi nel gruppo ne ha passate tante sulla propria pelle, di altri che ne hanno risolte altrettante in ambulatori o su tavoli operatori impegnativi, come pazienti o chirurghi, anche geograficamente molto lontani, con la spinta emotiva benevola di un gruppo che ha sostituito i fisiologici contenziosi giovanili – tutti direi-, con una solidarietà che riconcilia con la vita sana e con le guarigioni necesssarie.


[1] Lu Fegatazz’: Il Fegatazzo, tipica salsiccia di fegato di maiale e dadolata di grasso delle parti migliori dell’animale. È arricchita con generosità in aglio rosso e peperoncino piccante che ne completano la preparazione. Segna come un distintivo di appartenenza le popolazioni dei luoghi in cui è prodotto ed apprezzato fresco, cucinato arrosto sui carboni o quale componente di pasticci con verdure ed intingoli vari. Consumo molto diffuso anche secco, dopo idonea stagionatura, cosa che lo rende ancora più apprezzabile se incluso in antipasti o a corredo di aperitivi ed in merende varie, anche durante escursioni o banchetti all’aperto.
[2] Lu Camplais: voce dialettale del Camplese, bianco di Campli, molto diffuso nel teramano, l’attuale Passerina dell’omonimo vitigno dovunque, ma che resta Camplais esclusivo per alcuni nella Valle Peligna.
[3] Lu Fermentatə: il Fermentato. Un vino che nasce dalle esigenze di dare contributo da Montepulciano d’Abruzzo alle colorazioni di altri vini, di altre zone, meno carichi di colore e per questo non graditi dal mercato. Questi ultimi venivano aggiustati dall’uvaggio con alcune limitate quantità di fermentato. Ha avuto per questa ragione un certo mercato d’esportazione verso altre zone. Il Fermentato rappresenta una distintiva caratterizzazione di una beva antica, ricca di sostanza estrattiva che si avverte dalla densità del liquido non appena lo si versa nel bicchiere, gusto particolarmente intenso, vinoso come nessun altro, carico di sapidità e di tannica soddisfazione per le papille chiamate a confrontarsi con una persistenza di gusto particolare e lunga. Non è raro che l’assaggiatore non resti a rimuginare per un tempo prolungato sul gusto incontrato. Vino di sostanza, si direbbe ora, per via dei periodi in cui la bevanda era sostegno alimentare. È caratterizzato da un colore che macchia, contenitore e bicchiere, tovagliolo o malauguratamente gocciasse, il tovagliato. Richiederebbe lunghi lavaggi prima di nettare il tessuto, ammesso si riesca. Può definirsi di medio invecchiamento e se ne apprezzano le qualità migliori dopo un adeguato affinamento in bottiglia in cui, profumi intensi e gusto carico da confetture di frutta rossa, si definiscono per un pregio ricercato. Lo si ottiene da grappoli selezionati, de raspati con attenzione, accolti nei classici tini senza aggiunta di lieviti o solfiti, con gli acini che rilasciano i loro lieviti e tannini presenti sulla buccia turgida durante la fermentazione. La qualità del prodotto finale, oltre che indubbiamente dalle uve, viene ottenuta dalle temperature e dal periodo di fermentazione (minore di una settimana all’incirca) oltreché dai sapienti rimontaggi delle bacche d’uva che vengono a galla durante questa fase condotta in tini ben nettati come il resto dei materiali in uso. Bevanda da assaggio obbligatorio per le conoscenze di chi ama il vino ed il suo mondo.