A Fara Filiorum Petri si rinnova la magia de “Le farchie”

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di Bruno D’Alfonso

Storia, tradizione, fede, commozione, musica, amicizia, amore. Ingredienti, questi, di un antico evento che si celebra ogni anno a Fara Filiorum Petri: “Le Farchie”. L’origine risale al 16 gennaio 1799, quando un importante incendio si propagò vicino alla chiesetta di Sant’Antonio della Selva, nel versante che porta a Bucchianico; molte querce bruciarono intorno al paese e questa contingenza, di fatto, scoraggiò l’Esercito Francese che in quel frangente stava tentando di invadere il paese, desistendo da quel proposito. Il merito della salvezza della comunità farese, considerato un miracolo, fu attribuito all’intercessione del Santo che porta il nome della piccola chiesetta e la cui festa patronale cade proprio il giorno successivo.

E il racconto di questo miracolo, trasformato in leggenda, vuole che Sant’Antonio si mostrò ai francesi in divisa da generale, intimando di scatenare contro di loro la furia incendiaria degli alberi qualora fossero avanzati. Perciò la celebrazione viene rievocata annualmente (a parte le ultime due edizioni per via della pandemia) incendiando le Farchie nel piazzale antistante il cimitero, costruite ognuna da ogni singola contrada del paese, e che rappresentano quelle querce trasformate dal Santo in soldati a protezione della cittadinanza. Farchia è un modo antico di chiamare la punta della canna, che ne è l’elemento essenziale. Ogni farchia è costituita, infatti, da un fascio di canne che potrà raggiungere ottanta centimetri di diametro e circa otto metri al massimo di altezza, tenuto compatto da una serie di arbusti di salice che fungono da cinture. La lunga preparazione delle stesse segue un preciso rito popolare, che nei giorni precedenti la celebrazione prevede il radunarsi dei faresi intorno al laboratorio della farchia della propria contrada. Organetti, mandolini, balli, canti, tanti cibi e bevande della tradizione fanno da contorno ad una festa propiziatoria di amicizia e fratellanza. E c’è un canto comune a tutti cantato a squarciagola, il “Sant’Antonio”, lunga più di dieci minuti e che rievoca le tentazioni sopportate dal Santo, con una sola diversa versione della contrada Colli che racconta del miracolo della Selva. Seppur mantenuta la rivalità tra i contradaioli, non mancano rispetto e lealtà, ed è d’uso comune che nei giorni delle preparazioni delle farchie ci sia un interscambio sia di collaborazione che visite tra contrade, con l’accoglienza degli ospitanti con gli immancabili bicchieri di vino e variopinti vassoi di dolciumi. E quando si arriva al pomeriggio del 16 gennaio, ecco che la festa raggiunge il momento culmine: ogni contrada si incammina con la propria farchia sopra carri addobbati di drappeggi, fiori e simbologie tra cui l’immancabile icona di Sant’Antonio, a parte tre contrade (Fara Centro, Giardino e Via Madonna del Ponte) che la portano a spalla continuando in quella che è la più antica tradizione, verso il piazzale camposanto. In questa edizione, a quelle delle quindici contrade si sono aggiunte tre piccole farchie costruite dai bambini delle scuole primarie. Alle 17,30 circa, alla presenza della statua del Santo che per l’occasione è stata portata nel piazzale dalla vicina chiesa, il sindaco Camillo D’Onofrio ha scandito uno ad uno l’inizio dell’accensione di ciascuna farchia in un ordine stabilito ad estrazione, dando il via così ad un colorato e caldo spettacolo di altissime lingue di fuoco che hanno illuminato gli occhi lucidi di emozione di una cornice di pubblico di circa quattromila unità. La lunga combustione delle canne è stata così celebrata dai tanti balli e canti che si sono scatenati ai margini degli alti “Soldati di Fuoco”. Walter Salvatore, offrendomi del vino in segno di accoglienza vicino al banchetto della sua contrada Fara Centro, si commuove commentando la festa del suo paese: “Questa festa ha qualcosa di magico, è una tradizione che ci tramandiamo di generazione in generazione, ed è bello vedere fare dai nostri figli quello che noi abbiamo imparato dai nostri avi. E tra questi c’è anche il saper convivere in pace e allegria in una comunità di alti valori. E voglio accoglierti con queste parole di una canzone del mio compianto nonno Francesco D’Urbano, musicista farese: <…Dije chi sì, a chi ne le sa… Cà pè bellezze ‘ncè da fa… Pecciò stù core vò sentì… Cà lu Paese cchiù bbell Tu sì…; e poi ancora per forestieri come te: “…Se Te ne vì, Tu c’arevì… Luntane ne’nce si po’ stà…>”.          

E poco distante, al centro del circolo delle farchie, i suoi cugini Francesco e Massimiliano D’Urbano, armati di fisarmonica e chitarra, hanno intonato proprio quelle canzoni del nonno musicista che hanno in comune, intitolate “Cante tu Fara me”, “Queste è lu paese me”  e “Siam Faresi”, dispensando allegria in un contorno di gente festante che girava danzando a girotondo intorno a loro. Il messaggio di questa tradizione è chiaro: mai più guerre, ma solo pace e allegria tra i popoli! E di questi tempi, il segnale arriva ancora più potente e dritto al cuore.