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      I Padri Costituenti e la separazione delle carriere

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      di Andrea Granata

      Lo sventolio di una copia della Costituzione è, da qualche anno, uno dei momenti più intensi della politica italiana: un gesto estremo con cui le opposizioni, in occasione di presunti allarmi democratici particolarmente gravi, fanno appello ai valori fondanti la nostra Repubblica.
      L’allarme puntualmente è scattato in occasione della presentazione del disegno di legge governativo per la separazione delle carriere dei magistrati.
      C’è da dire che per quanto l’argomento sia tecnico e non proprio scontato, gli italiani sanno quel che c’è da sapere: vale a dire che un disegno del genere era presente nel Piano di Rinascita Democratica della Loggia P2 e questo basta ed avanza per apostrofare come criminale (se non peggio) la proposta del Governo, anche in barba alla teoria dell’orologio rotto che almeno due volte al giorno segna l’ora esatta.
      Spinti dall’emulazione verso tanto pensiero speculativo ci siamo presi del tempo per provare a comprendere le ragioni delle incrollabili certezze di taluni e siamo andati a spulciare i lavori preparatori.
      Ed ecco che subito, con grande sconcerto, ci siamo accorti che per i nostri Padri costituenti la separazione delle carriere dei magistrati non era esattamente un tabù, anzi.
      Addirittura, leggendo i resoconti degli interventi dei costituenti si possono trovare dichiarazioni, che oggi avrebbero un effetto a dir poco dirompente, come quella dell’on. Giuseppe Bettiol, giurista eletto nelle liste della Dc, il quale riteneva “come sia proprio dei regimi totalitari il concetto di voler considerare il pubblico ministero come un organo della giustizia: mentre in tutti i regimi liberali esso è considerato come un organo del potere esecutivo”.
      Di segno diametralmente opposto, nella direzione di far rientrare nella funzione giudiziaria anche ambiti oggi impensabili, troviamo quanto sostenuto dall’on. Gennaro Patricolo (eletto nelle liste del Fronte liberale democratico dell’uomo qualunque) che propose, senza risultato, di approvare un articolo di questo tenore: “Sono organi del potere giudiziario: a) la magistratura sia requirente che giudicante; b) la polizia giudiziaria; c) l’amministrazione degli istituti di prevenzione e pena.”.
      Fu poi il Presidente della Commissione Giustizia, l’on. Meuccio Ruini, nella sua relazione, a soffermarsi sul tema dell’indipendenza dalla magistratura in termini che rimasero scolpiti nella pietra.
      “E’ opportuno dirlo dinanzi al Paese tutto lo scopo dei costituenti è di assicurare alla magistratura la sua indipendenza, come personale, come corpo, come ordine, e in questo possiamo spingerci molto innanzi”, disse il giurista emiliano.

      Con altrettanta solennità Ruini chiarì come non fosse intento dei costituenti far sì “che l’amministrazione di tutti i servizi della giustizia debba passare alla magistratura, con la conseguente soppressione del Ministero della giustizia e con l’inevitabile corollario che la magistratura diventi essa stessa una specie di ministero” sottolineando ancora “che la magistratura debba avere funzioni autonome e indipendenti di autoregolazione per le assunzioni, per i trasferimenti, per le promozioni, per le misure disciplinari” ma, ferme rimanendo le attribuzioni autonome della magistratura sul suo personale, “l’amministrazione dei servizi della giustizia spetta a un dicastero, e a un ministro che ne risponde davanti al Parlamento”.

      Ruini richiamò con grande forza anche la chiara volontà della Commissione dai lui presieduta, dell’intera Assemblea costituente e del Paese intero secondo cui, se è vero che “i magistrati debbono costituire un ordine indipendente e autonomo”, non si deve intendere che si voglia “affidare ad essi tutto il funzionamento dell’amministrazione e dei servizi del Ministero della giustizia”.
      Proprio sul tema del rapporto tra Pubblico Ministero Ministro di Grazia e Giustizia, c’è un passaggio in cui, niente po’ po’ di meno che Giovanni Leone, insigne studioso di procedura penale e futuro Presidente della Repubblica, conviene con un suo collega “di rinviare la questione alla legge sull’ordinamento giudiziario”.
      Ecco, questa è una cosa che ci ha colpiti: la presenza spesso evocata dai nostri costituenti di un convitato di pietra, la riforma (a volte definita imminente) dell’ordinamento giudiziario con cui si sarebbe dovuto dare attuazione ai principi contenuti nella Costituzione.
      Sì, parliamo di quella riforma che a mente dei nostri Padri costituenti avrebbe dovuto sostituire il Regio Decreto sull’ordinamento giudiziario.
      Sì, ottantatré anni di attesa per una riforma ci appaiono decisamente troppi, forse è giunto il momento, tra uno sventolio e l’altro della Costituzione, di domandarsi come e perché, sul punto, dal 1948, non si è riusciti a muovere paglia.

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