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      Ilaria Salis e le pene sedate

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      Se lo straordinario risultato elettorale conseguito da Ilaria Salis è un dato incontestabile, altrettanto non può dirsi del significato da attribuire a questo voto, espresso soprattutto da parte dei più giovani.

      Di certo sul successo della neo parlamentare europea ha pesato grandemente l’ondata emotiva provocata dalle immagini della imputata incatenata, condotta dentro un’aula di giustizia. Resta da capire se dietro tutto questo ci sia solo un fatto emozionale provocato dalle immagini scioccanti di una donna legata mani e piedi come un animale pericoloso o la presa di coscienza, da parte dei più giovani, sulle condizioni di chi viene privato della propria libertà personale.

      Voglio omettere ogni considerazione sul teatrino che puntualmente hanno offerto anche in questa occasione i politici nostrani, che quando l’argomento è la giustizia riescono ad essere ancora meno credibili di quanto già in realtà siano. Penso sia inutile, e soprattutto poco rispettoso verso quei ragazzi, che di fronte ad immagini tanto crude di una persona incatenata, hanno reagito esprimendo il loro voto.

      A questi ragazzi dobbiamo rispetto e questo significa soprattutto che non dobbiamo limitarci ad offrire un’icona per averne in cambio voti: piuttosto dobbiamo spiegare loro, senza tanti giri di parole, che quella cosa che tanto li ha impressionati si chiama contenzione; sappiano che se ad Ilaria Salis sono toccate le manette, ai detenuti delle nostre carceri toccano gli psicofarmaci, che a differenza di catene, ceppi e manette però danno molto meno nell’occhio.

      Psicofarmaci? Si, perché da noi i detenuti li facciamo impasticcare (come dicono i giovani), gli creiamo una gabbia farmacologica, una gabbietta ad hoc, così magari non realizzano a pieno d’essere rinchiusi in celle sovraffollate oltre ogni limite.

      In parole povere li rimbambiamo, perché in fondo in fondo ci vergogniamo del contesto in cui, condannati o in attesa di giudizio, trascorrono la loro detenzione.

      E qui, giovani o meno, si dovrebbe vibrare di rabbia, perché da anni assistiamo allo schiudersi di carriere e fortune altrimenti inspiegabili di personaggi che grattano la pancia alle più triviali chiacchiere da bar, quelle che il bon ton vorrebbe chiamassimo giustizialismo e poi al dunque, una volta che abbiamo “il colpevole che non l’ha fatta franca”, che succede? Gli impediamo di espiare in pieno la pena che gli è stata data, anzi li droghiamo per risparmiargli la sofferenza altrimenti intollerabile di assistere a tanto strazio.

      Ai ragazzi che hanno votato per Ilaria Salis dobbiamo dire che questa schizofrenica rappresentazione di uno Stato, allo stesso tempo feroce e pietoso, che sedando i detenuti li difende da sé stesso e dalla barbarie delle carceri, avviene a casa nostra senza soluzione di continuità tra un governo e l’altro.

      C’era una volta la Costituzione, che dava alla pena detentiva una funzione riabilitativa, c’erano le carceri che avevano la funzione di recuperare l’individuo per restituirlo alla società, ma in nome di tutto questo non abbiamo trovato di meglio che creare un ossimoro, la pena sedata e gli abbiamo dato corpo.

      Proprio grazie alla prassi dell’ossimoro pena sedata i 44 suicidi in carcere da inizio anno sono, allo stesso tempo una tragedia immane ed il risultato della limitazione del danno.

      A tavola, al bar e soprattutto nei talk show, non è bene parlare di carceri. Eppure tra i nostri Padri costituenti c’era chi, in nome di un senso delle istituzioni oggi smarrito, mostrava di comprendere quanto lo Stato dovesse far lo Stato anche dentro le carceri, arrivando a proporre di includere nella funzione giudiziaria anche l’amministrazione degli istituti di prevenzione. Si trattava di un parlamentare, l’On. Partinico, eletto nelle liste dell’uomo qualunque, un qualunquista di un altro mondo.

      Dicevo “che non sia un’illusione”, che l’elezione della Salis non sia l’ennesimo segnale lanciato a chi non sa che farsene.

      Ricordo una fulminante freddura con cui Mauro Mellini, all’epoca parlamentare del Partito Radicale, replicò ad un suo collega che a proposito di una legge appena approvata, disse che con quella norma si era inteso dare un segnale.

      Mellini, da par suo, gli fece notare che per dare segnali bastavano i semafori.

      Ai giovani di oggi sembrerà incredibile, ma la politica è un’altra cosa.

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