di Alberto D’Ambrosio

Dalla presentazione del libro di Marattin (e speriamo che nel prossimo si impegni di più) sono venuto via, dopo un’ora di melensaggini, non so se più indispettito, indignato, rassegnato o deluso. Ma forse una sola parola spiega meglio il mio stato d’animo: “arrabbiato”.
Sì, perché sono davvero arrabbiato di dover assistere alla presentazione dell’ennesimo nuovo centro liberale sempre con le stesse modalità, sempre con le stesse ricette, sempre con le stesse persone, sempre con lo stesso codazzo al seguito composto di “politici” (fra virgolette perché voglio ancora sperare che la politica sia altro), sempre gli stessi, che migrano da un partito all’altro in cerca delle migliori condizioni, fosse anche il miglior strapuntino.
Già sui termini bisognerebbe forse mettersi d’accordo. “Liberale”, mi sembra di vedere, è diventato nient’altro che un contenitore, un ombrello sotto il quale si ripara in cerca di un’identità una fauna composita che più composita non potrebbe essere. Ed infatti già a giudicare dagli astanti, molti dei quali con incarichi direttivi, c’è da rimanere perplessi. Fra ex grillini, ex socialisti, ex missini, ex ed attuali piddini ed ex democristiani (che poi è la stessa cosa) non mi è sembrato di vedere alcun liberale. Ma, è vero, prima di tutto bisognerebbe mettersi d’accordo sul termine “liberale”.
Non è questo il tema del mio discorso, però, e lascerò ad altri, al nuovo costituendo partito liberal-democratico, l’impegno e la promessa di definire cosa sono, cosa vogliono essere e cosa davvero saranno (e con chi, last but not least).
Mi limiterò a commentare alcune delle cose che ho sentito.
La prima delle quali, o meglio una fra le più importanti o comunque quella che più, da sempre, mi colpisce (e tralascerò le solite scontate accuse a destra e grillini), è l’ansia, comune ad una certa tecnocrazia, della “crescita”. Mi sembra di ritornare a quando, dipendente in un importante gruppo industriale, i nuovi manager, di ritorno dagli USA con i soldi di papà che li mandava a fare i master oltreoceano, assillarono tutti con la storia della “crescita”. Mantenere i fatturati, a fronte di una clientela che rimaneva sempre la stessa, era un delitto. Bisognava aumentarlo, e aumentarlo, e aumentarlo ancora, pena l’uscita dal mercato. A spese del concorrente meno esagitato, forse. Comunque non certo stimolando una domanda, sia pure in crescita a causa del boom economico, che rimaneva costante. E allora qual era e ancora è la ricetta dei nostri geni di oltreoceano trapiantati nel bel Paese (quello della pizza, mandolino, pennica pomeridiana e, in fin dei conti, una visione più etica della vita)? Aumentare la domanda. E qual era e ancora è la migliore soluzione? Semplice: fare più figli. Non certo, soprattutto oggi, per pagare le pensioni ai vecchi ed evitare quindi il collasso dell’INPS.
Perché magari non tutti ricordano che il sistema retributivo non è più in vigore da decenni e vale ancora solo per quei vecchi che godono della pensione da prima che il contributivo entrasse in vigore e che ancora si ostinano a rimanere in vita.
Sembra di tornare ai tempi in cui si esortava a dare più braccia alla patria, giusto cento anni e un paio di regimi fa.
Con la differenza che il metodo era valido quando la tecnologia era arretrata. Oggi, che con la tecnologia, abbiamo sempre meno bisogno di braccia, siamo sicuri che la ricetta sia ancora valida?
Viene il dubbio che il vero problema di oggi non sia la mancanza di manodopera (e il tasso di disoccupazione attuale lo dimostra. Come mai abbiamo così tanti disoccupati pur affermando che abbiamo bisogno di crescere, di essere di più?) ma sia la mancanza di consumatori che alimentino la spirale infinita della crescita infinita. Il dubbio legittimo che salta agli occhi è che si tratti di un problema molto più difficilmente risolvibile: la mancanza di lungimiranza della classe politica di cui disponiamo.
Perché una classe politica meno ossessionata dal “tutto e subito” non si farebbe scudo della denatalità per giustificare la propria incapacità di progettare il futuro (che sarebbe poi l’unica funzione della politica) e del suo spendere oggi a spese del domani, come se non ci fosse un domani. Perché sarebbe capace di fare alcuni semplicissimi calcoli aritmetici secondo i quali a fronte di una diminuita natalità si avrebbe un momentaneo spostamento della proporzione giovani/vecchi (sempre i soliti vecchi che si ostinano a rimanere in vita) per poi riassestarsi su un equilibrio stabile (purtroppo prima o poi i vecchi finiscono per morire e lasciare agli altri un mondo meno affollato e con più risorse pro/capite a disposizione).
Ma la nostra politica sembra sempre più impegnata a salvaguardare sé stessa che a progettare. Si accorgerebbe altrimenti che, oggi come ai tempi di Keynes (di cui spesso i liberali di casa nostra si fanno paladini) il primo problema da risolvere è la disoccupazione e non la diminuzione della popolazione (dato fra l’altro falso perché la popolazione mondiale in realtà continua a crescere). Un Paese in cui una persona a cui vengono offerte pari opportunità non riesce o non vuole trovare un lavoro è un Paese che ha fallito nella sua prima ragione di essere: una convivenza fra i suoi membri la più equa ed etica possibile. Il tema semmai, da decenni ormai, è l’utilizzo razionale dell’energia e la redistribuzione della maggiore ricchezza prodotta grazie alla tecnologia.
Un Paese, un meccanismo che ha bisogno di crescere all’infinito (crescete e moltiplicatevi) dimenticando di esistere all’interno di un sistema finito, che ha bisogno di divorarsi per sopravvivere, ha in sé qualcosa di profondamente malato, di profondamente sbagliato.
Gli argomenti di Marattin, quindi, non mi sembrano discostarsi da quelli di una politica soprattutto incapace che si bea di chiacchiere sempre uguali e si auto-assolve della sua insipienza con la certezza di farla franca.
Di farla franca grazie ad un sistema ormai collaudato grazie al quale il cittadino, in barba a quanto statuito dalla stessa Costituzione, è esautorato del suo diritto di scegliere i propri rappresentanti. Della legge elettorale tutti parlano in tempi di campagna elettorale salvo, una volta eletti, di rimandare la discussione a tempi migliori.
(segue)