E se uscisse Romano Bilenchi?
di Davide Pitocco
Tra pochissimi giorni per milioni di studenti avrà inizio la fine di quel rito
chiamato Esami di maturità, cominciato a marzo con quei famosi 100 giorni
all’esame, durante il quale gli studenti hanno saltato la scuola per andare tutti
insieme presso un santuario, nel nostro caso San Gabriele, a bere, a fumare, ma
soprattutto a cercare una grazia o un santo che nel giorno fatidico stia lì a dare
loro l’imbeccata giusta e magari a far in modo che quella traccia che meglio
delle altre si sono preparati possa apparire nel plico ministeriale. La girandola
dei papabili è stata anche quest’anno infinita. Si è parlato di d’Annunzio,
ricorrono i 160 anni dalla nascita, ma anche di Ungaretti, di Montale, di Pavese,
ognuno con una motivazione più o meno credibile. Noi oggi vogliamo essere
una voce fuori dal coro e magari pregare le eminenze grigie del ministero che
possano far uscire una traccia su Romano Bilenchi. Ma chi è questo sconosciuto
che i libri di letteratura non hanno mai considerato? Immaginate lo stupore dei
discenti nel leggere quel nome, la novità e lo sgomento, l’iniziale imbarazzo che
potrebbe cogliere anche alcuni commissari all’oscuro dell’esistenza del grande
scrittore. Alla fine anche il buon Fogazzaro sta scomparendo dai libri di testo.
Noi giovani attempati ricordiamo ancora le pagine evocative di Piccolo mondo
antico, anche in virtù degli sceneggiati Rai e Mediaset, ma questi figli di
Youtube hanno memoria del povero Antonio?
Vogliamo noi colmare il vuoto e parlare per qualche minuto di Bilenchi.
Romano Bilenchi è oggi purtroppo un autore dimenticato, nonostante possa
essere considerato uno dei più grandi scrittori del Novecento italiano. Nato nel
1909, muore nel 1989. Se si dovesse dire perché la sua figura di letterato è così
importante, sono due gli aspetti da citare nel suo lavoro: il primo riguardo
soprattutto l’aspetto contenutistico, infatti Bilenchi riesce a raccontare con una
sensibilità ed una finezza estreme quel passaggio dall’infanzia all’adolescenza
che è uno dei grandi misteri dello sviluppo della vita degli uomini. Riesce ad
infondere nel lettore quel senso di innocenza e di eternità che non trova eguali
nel panorama letterario. La lettura delle sue opere conduce attraverso quel
passaggio obbligato dall’innocenza, dallo spazio ristretto dove la figura della
madre campeggia come un’entità assoluto, fino alle soglie dell’età adulta, nella
quale compaiono la morte ed il dolore e dove si deve per forza di cose fare i
conti con sé stessi e gli altri. L’altro aspetto è stilistico perché Bilenchi è
scrittore di grandissima qualità stilistica: è padrone di una lingua asciutta, secca,
precisa, nella quale le parole sono usate nel minor numero possibile, ma con la
maggior precisione che è possibile ricercare. Le stesse frasi sono brevi ed
incisive con una costruzione sintattica molto semplice. Rimanda alla lingua
toscana che egli ascoltava e parlava, ancora prima della revisione linguistica
operata dalla televisione. Il suo stile ha riferimenti molto antichi, fino ai mistici
del Trecento, egli infatti amava leggere Santa Caterina da Siena. Ha anche
legami con la tradizione contemporanea di quegli scrittori americani definiti
minimalisti che adoperavano le stesse scelte linguistiche, primo tra questi
Hemingway, una lingua di grande efficacia e semplicità. Egli ha scritto un bel
romanzo, Conservatorio di Santa Teresa, ma il meglio di sé lo profonde nei
racconti, dove stile e contenuto raggiungono la massima espressione in
particolare in tre di essi, piuttosto lunghi, i primi due pubblicati agli inizi degli
anni quaranta e l’ultimo nel 1982, La siccità, La miseria ed Il Gelo, riuniti con il
titolo Gli anni impossibili.