di Pierpaolo Di Carlo
La ciclicità di certi avvenimenti e la ricorrenza di certi luoghi sono spesso fortuite coincidenze dettate dal caso. Tuttavia il calcio, con la sua moltitudine di combinazioni figlie di partite su partite di anno in anno, è in grado di tramutare queste casualità in scenari molto meno improbabili.
È così che, dopo quarantuno anni Atene torna ad essere la città degli incubi per una squadra italiana e dopo dodici mesi, la Fiorentina torna ad assaporare il dolore di una beffa al tramonto di un’altra finale. A prescindere dalle cicliche circostanze e dai ricorsi storici, i tifosi viola dovranno convenire che non si possa trattare né di sfortuna, né di una maledizione, perché le partite finiscono quando lo dice l’arbitro e fino ad allora non si possono registrare cali di concentrazione. Gli errori sono errori, a prescindere da quale sia il loro collocamento nel corso di una partita. Questo vale tanto a Praga quanto ad Atene e per quanto faccia male come ricorrenza, non si può ignorare né tanto meno negare. Certo, riuscire a razionalizzare e accettare fino in fondo una delusione e un dolore simile non può essere immediato per i tifosi sconfitti, che però di certo non possono non riconoscere come se migliori in campo sono risultati due difensori viola, anche questo significherà qualcosa. In una finale all’insegna dell’equilibrio, ma anche della tenacia e del furore agonistico, ha vinto la squadra che nel corso della gara ha saputo sbagliare di meno e resistere di più, perché nello sport è così che funziona, piaccia o non piaccia.