di Davide Pitocco
La rivoluzione russa scoppia durante il terzo inverno della Grande Guerra. In cinque giorni il popolo di Pietrogrado abbatte una delle monarchie più forti del Mondo. Il popolo russo è abituato a pazientare, però la guerra ha aggiunto alle secolari miserie che affliggono i russi fame e carestie. A Pietrogrado, nella capitale, lunghe code si formano davanti ai negozi di generi alimentari, ore ed ore in piedi nella neve con venti gradi sottozero. Non è la prima volta che le code si sono trasformate in comizi di protesta, né è la prima volta che gli operai si sono messi in sciopero contro l’inflazione che dimezza e a volte annulla il potere d’acquisto dei salari, contro le speculazioni dei profittatori di guerra. Giovedì 8 marzo 1917 le operaie russe celebrano la giornata della donna e lunghi cortei si formano nei quartieri periferici e si dirigono verso il centro. Alle donne, filandiere e tessitrici soprattutto, si uniscono gli operai delle officine metalmeccaniche. Quelli della Putilov, la più grande e la più rivoluzionaria officina metalmeccanica, sono già in sciopero dal tre marzo. Secondo i rapporti della polizia in questo primo giorno di manifestazione i protestanti sono 90000 e giungono sulla via principale della città alle tre del pomeriggio e gridano Pane! Pane! Nessuno organizza o dirige il furore popolare. I rivoluzionari, da molti anni ed in nome di ideologie diverse che si battono contro lo zarismo, sono in esilio per il mondo o al confino in Siberia. Venerdì 9 marzo tutte le fabbriche sono ferme. Anche se la Russia è un paese prevalentemente agricolo nella capitale gli operai formano con le loro famiglie un quinto della popolazione, mezzo milione su due milioni. Violenti comizi vengono organizzati in tutte le fabbriche. I dimostranti, giunti a 200 mila, scendono per le strade. Agitano bandiere rosse e cantano la marsigliese. Al grido di pane pane si è aggiunto quello di basta con l’autocrazia. In aiuto della polizia, in pericolo di soccombere, vengono fatti uscire i cosacchi, truppe scelte provenienti dal Don, che nel tempo si sono guadagnate l’appellativo di boia del popolo, per le sue spietate repressioni. Sembrano però aver perso molto del loro passato zelo e la folla si divide davanti alle loro cariche incruente e si ricompatta subito dopo. Scoppiano applausi e sorrisi compiaciuti. Qualcuno grida non sparate sui vostri padri e sui vostri figli e fratelli. Il palazzo d’inverno è la reggia di Nicola II, zar di Russia, ultimo discendente dei Romanov che governano la nazione. Lo zar è assente per dirigere le azioni di guerra. Dalla capitale, scossa dalle manifestazioni, la zarina gli telegrafa: Si tratta di un movimento guidato da teppisti. Giovinastri corrono nelle strade gridando che non c’è pane solo per creare agitazione. Se facesse un pò più freddo, sarebbero rimasti tutti a casa. Bisogna dichiarare fermamente agli operai che è proibito scioperare e che in caso di infrazione saranno mandati al fronte per punizione.
L’ordine a Pietrogrado è affidato a Sergej Semionov Cabalov, uomo dal pugno di ferro, generale della guarnigione. Per fronteggiare i disordini dispone di 160 mila uomini, ma questa volta il suo compito è molto difficile. Arriva così sabato 10 marzo. Cabalov passa all’azione e secondo le direttive dello zar, fa uscire le truppe e le invia a presidiare le vie della città. L’ordine è di aprire il fuoco sugli assembramenti che rifiutano di sciogliersi. I soldati, privi di entusiasmo si dispongono davanti ai dimostranti, 240 mila persone, tra cui anche studenti, dottori, commercianti. Tutti sono raccolti davanti la cattedrale. Gli intellettuali sono stati i primi nemici dello zar e vedono nella sommossa operaia la possibilità di veder realizzare il proprio sogno, una Russia repubblicana e democratica. Per questo si levano gli oratori improvvisati che parlano alla folla. D’improvviso la polizia carica e tanti manifestanti rimangono al suolo uccisi.
Domenica 11 marzo è il giorno decisivo: la folla, esasperata dalle uccisioni del giorno precedente, assaltano e incendiano i commissariati di polizia, linciano i poliziotti che si trovano isolati per le strade. Cabalov fa ritirare la polizia e vengono mandati i soldati dell’esercito. I primi reparti inviati ubbidiscono agli ordini degli ufficiali ed aprono il fuoco. Fanno centinaia di morti, ma poi con numero sempre crescente rifiutano di sparare su padri e fratelli. Lunedì 12 marzo: l’esercito diventa il protagonista dell’insurrezione di febbraio. I reggimenti della guardia imperiale hanno sparato sulla folla e ci sono stati 40 morti. Alle 7 del mattino sono schierati nel cortile della caserma. Un testimone racconta che quando il comandante Lagikov pronuncia la formula di rito Buongiorno fratelli, risuona un formidabile urlo perché urrà è il segnale per disobbedire agli ordini. Il comandante abbandona l’esercito e cadrà ucciso mentre si allontana dalla caserma. Scene analoghe si verificano in altre caserme. Gli ufficiali fraternizzano con le truppe, i soldati escono dalle caserme e si uniscono ai dimostranti. Gli operai ricevono armi dai soldati ammutinati ed insieme vanno alla caserma degli automobilisti dove ci sono gli autoblindo. Colonne di mezzi percorrono le vie in tutte le direzioni e gli insorti si impadroniscono della città.