
di Andrea Granata
Il mio Caucaso comincia quarant’anni fa davanti la vetrina di un antiquario di Via Margutta, il compianto Andrea Coen che qualche anno dopo avrei avuto la fortuna di conoscere. Un incontro che mi regalò un pomeriggio indimenticabile nella sua galleria trascorso a scambiarci le sensazioni che i tappeti che avevamo di fronte ci davano.
Quel Caucaso che mi aveva sedotto aveva i colori di un tappeto sul cui fondo nero si stagliavano coloratissimi disegni a boteh, solo dopo seppi che quel tappeto si chiamava Marasali ed oltre un secolo prima era stato annodato dagli abitanti di un villaggio chiamato Marasa nella regione dello Shirvan in Azerbaigian.

Questa epifania, l’incomprimibile esigenza di conoscere, sentire, toccare, annusare i tappeti si è sfamata per anni di televendite e di improbabili storie di tele imbonitori, poi di libri, riviste, cataloghi di aste internazionali, della pazienza di qualche antiquario.
Per me la Cecenia, nonostante tutto, è ancora il posto dove in qualche soffitta si poteva trovare un tappeto di Chi-Chi dal rigoroso disegno ripetuto capace di farmi perdere nell’inspiegabile armonia dei suoi colori.
Non ho mai perdonato gli ufficiali russi che, secondo la vulgata di alcuni tele venditori, pretesero un secolo fa che gli annodatori del Karabagh abbandonassero l’iconografie della loro tradizione per realizzare degli improbabili fiori di gusto europeo (fiori stranieri, gol farang) di sapore vagamente francese.
Sul finire dello scorso millennio sentivo i reportage di Antonio Russo, un giornalista coraggioso i cui servizi radiofonici in cui raccontavano di Georgia, Cecenia, Karabagh, per me quei luoghi erano quelli dove con un pò di fortuna si poteva ancora trovare quei tappeti sopravvissuti a chissà quali vicende.
Lo ascoltavo alla radio, la sua marcata inflessione abruzzese me lo rendeva ancor più familiare, gli invidiavo le opportunità di scoperta che avrebbe avuto, sapevo che un inviato di guerra rischia la vita, ma non immaginavo che una mattina ascoltando Radio Radicale avrei saputo che il suo corpo martoriato era stato rivenuto a Tblisi.
Per me Baku è la foto in bianco e nero di un anziano signore coi baffetti e i capelli lunghi sotto un colbacco di astrakan, quel signore si chiamava Latif Kerimov, un orgoglio per gli atzeri, questo che nelle foto sembrava un simpatico vecchietto aprì, primo al mondo, a Baku il museo del tappeto, nel 1961 scrisse, in lingua azera e traduzione in russo, una monumentale quanto ineguagliabile opera sul tappeto caucasico.
Di Baku sapevo che il clima doveva essere mite perché i suoi tappeti nascevano molto più rasati dei tappeti annodati nella fredda Georgia.

Vedevo le immagini di Grozny, le macerie degli edifici sovietici mi chiedevo dove fossero i pascoli e le pecore, come in posto tanto grigio fossero stati pensati ed annodati quei tappeti.
Wojciech Gorecki, un giornalista polacco che realizzò un affascinante reportage su quella travagliata regione, scrisse: il Caucaso è un mondo a sé, anzi è un pianeta a sé e per me era vero, perché come Salgari che non era mai stato nei luoghi dove erano ambientati suoi libri, io sentivo di conoscere quelle terre dove avevo scelto i miei eroi.
Quegli eroi erano gli abitanti di un villaggio che si chiama Bidjov, a sud di Shemacha la stessa provincia di Marasa da cui dista solo pochi chilometri.
A Bidjov facevano tappeti caratterizzati per le figure palesemente astratte ed ampie, evidenti rappresentazioni di animali stilizzati resi quasi irriconoscibili.

Scoprii che secondo alcuni studiosi la spiegazione di quella simbologia unica nel suo genere, molta diversa da quella delle produzioni limitrofe, nascesse da una clandestina resistenza alla colonizzazione mussulmana, il cui obiettivo era quello di far sopravvirecelare i simboli zoomorfi del culto zoroastriano.
La sola prospettazione di questa teoria sui tappeti di Bidjov ha fatto sì che ancora oggi siano i miei preferiti.